Si annuncia una bella primavera per i diritti delle unioni civili in Italia. A Roma, forse anche a Milano, ed io spero in tante altre città, si raccoglieranno le firme su proposte di iniziativa popolare per il riconoscimento dei diritti delle famiglie senza matrimonio.
E’ ormai chiaro che in assenza di un Parlamento che faccia il suo mestiere, la strategia di chiedere alle Regioni ed agli Enti Locali di riconoscere e concretamente applicare i principi di non discriminazione e di pari opportunità anche alle coppie non unite in matrimonio si sta imponendo come la migliore strategia per la piena uguaglianza sostanziale e non solo formale, su queste materie.
L’Associazione radicale certi diritti ci ha creduto da sempre, e si è impegnata a far si che questa strada diventasse non sostitutiva ma complementare a quella che continuiamo a considerare maestra, del riconoscimento del diritto al matrimonio civile per tutti e tutte, eventualmente integrato con la regolamentazione delle convivenze.
Il rigoglio delle iniziative e le tante confusioni, linguistiche e politiche, che su queste materie si sono moltiplicate necessitano di qualche precisazione. Per chiarirci le idee, modulare l’iniziativa politica e tarare le aspettative su obiettivi raggiungibili e misurabili, non solo su parole d’ordine. Al riparo dalle strumentalizzazioni mediatiche che - novità della novità! – si affacciano anche dalle parti delle sinistre vincenti.
Vado per punti, magari in modo un po’ apodittico, ma penso che lo schematismo possa aiutare a capirci meglio.
Complementare, non sostitutivo
A condizione di risultare ripetitivo conviene risottolineare che stiamo parlando di una strategia complementare e non sostitutiva in materia di diritti delle coppie non unite in matrimonio. Come è noto il diritto civile, così come l’anagrafe e lo stato civile, sono di competenza esclusiva dello Stato. Su queste materie le Regioni e gli Enti Locali non possono intervenire. Ma possono utilizzare gli strumenti che le leggi già offrono. In altre parole: nessuna Regione ne alcun Comune italiano potranno mai riconoscere matrimoni o convivenze con tutto quello che ne consegue sul piano civilistico, ma possono aggirare l’ostacolo operando nelle materie di propria competenza, per azzerare od attenuare la disparità di trattamento tra coppie matrimoniali e coppie non matrimoniali.
Il dito e la luna
Da questo punto di vista l’obiettivo principale degli interventi delle Regioni e degli Enti locali deve essere quello di modificare le politiche ed i programmi di intervento, e NON può esaurirsi nel rilascio del certificato anagrafico di famiglia per vincolo affettivo o, peggio ancora, nell’istituzione del registro delle unioni civili. Il certificato, e il registro, sono il dito, mentre la luna sono tutte quelle piccole/grandi riforme che in ciascun ambito tematico possono essere operate secondo le competenze proprie dell’Ente. In questo sta la vera novità dei provvedimenti della Regione Emilia Romagna e del Comune di Torino: entrambi hanno considerato il certificato di stato di famiglia per quello che esso rappresenta, ovvero un semplice strumento per identificare le coppie non matrimoniali, cercando di distinguerle dalle semplici coppie conviventi e valorizzando il vincolo affettivo. Ma il punto principale del passo compiuto è innanzitutto l’aver riconosciuto pari dignità alle forme familiari, e, soprattutto, aver operato per estendere diritti e doveri (benefici e costi) oggi appannaggio solo delle coppie matrimoniali anche alle coppie non unite in matrimonio. Questa è, e deve diventare a mio avviso, anche la parte sostanziale più rilevante delle proposte oggi all’esame dei consigli comunali o delle proposte di iniziativa popolare.
Registro versus stato di famiglia
Chiarito che l’obiettivo è quello della riforma delle politiche e dei programmi di intervento, e che stato di famiglia per vincolo affettivo o registro delle unioni sono strumenti differenti nella forma ma con effetti sostanzialmente uguali per l’obiettivo del riconoscimento delle coppie non unite da matrimonio come soggetti di diritti e doveri, dichiaro subito la mia preferenza per lo stato di famiglia. Non ho alcun motivo giuridico o politico particolare, ma una paio di semplici constatazioni sulle quali sarebbe meglio riflettere un minuto di più.
Lo stato di famiglia per vincolo affettivo è più facile da ottenere e, allo stato, può essere rilasciato dalle anagrafi senza l’approvazione da parte dei comuni di particolari regolamenti. Lo fanno già alcuni comuni italiani, e nei comuni nei quali è stato necessario approvare un apposito regolamento o deliberazione (sto parlando anche di Torino) si è trattato di un “pegno” da pagare ad ufficiali dello stato civile che non paghi di una legge e di un regolamento anagrafico chiarissimo in materia (DPR 223/89) avevano bisogno di una ulteriore “copertura” politica da parte dell’organo elettivo. La cosa non deve stupire, e se questa è la strada da seguire anche in altri comuni che si proceda pure, a condizione di non scambiare obiettivo con strumento.
In secondo luogo gli stati di famiglia per vincolo affettivo sono codificati in uno strumento legislativo nazionale, che deve essere semplicemente applicato. Mentre i registri sono “appesi” a norme di altra natura, che risiedono, certo, nell’autonomia degli Enti Locali, ma che creano un “recinto” di cui non se ne sente l’esigenza né l’utilità in sé.
Perché quindi in Italia si continua a parlare di registri? Per due motivi: il primo è figlio di quella semplificazione linguistica che porta i media a non andare tanto per il sottile. I registri sono stati un obiettivo per tanti anni dell’Arcigay (soprattutto dell’Arcigay) che peraltro ha sempre avuto ben chiaro il valore ed anche il limite di questo strumento se non accompagnato dalla riforma delle politiche. Ma soprattutto se si vuole avere visibilità su questo tema è più facile se sbandieri il registro che un semplice stato di famiglia. Un po’ come le destre che quando parlano di queste materie evocano sempre i matrimoni gay e gli sfracelli socio-antropoligici che ne deriverebbero. La novità di questi ultimi tempi – la novità della novità, appunto - è che da più esponenti delle sinistre vittoriose si è affacciata la richiesta di parlare di registri, senza tanto sottilizzare. Perché scontrarsi in consiglio comunale sul registro dà maggiore visibilità che semplicemente applicare il regolamento anagrafico e modificare le politiche sulla famiglia. Credo che si debba fare grandissima attenzione a non alimentare oltre una certa misura il bisogno di visibilità mediatica di cui tutti siamo drogati (anche i gruppi lgbt) perché se alla forma non è legata sostanza poi capita che ai registri non si iscrive nessuno perché nessuno diritto reale viene esteso alle coppie non matrimoniali.
Doveri e non solo diritti
Spero davvero di non dover più ascoltare, o leggere, banalità come “il riconoscimento delle convivenze è una fregatura perché mi fa perdere punti nella lista di attesa per l’accesso all’asilo” o peggio ancora ascoltare quei soloni da bar sport che si accorgono ora che la legge italiana consente di estendere, da tempo, i doveri di assistenza reciproca anche ai conviventi. Chiedere l’estensione del matrimonio civile alle coppie tra persone dello stesso sesso, ma anche chiedere il riconoscimento delle convivenze, porta con sé, necessariamente, una quota di diritti e una quota di doveri, ed è bene che sia così. E’ un bene per la coppia ed è un bene per la società. Chi non vuole “perdere” benefici indiretti non chieda riconoscimenti. La regola è semplice da capire, e vale per tutti e tutte.
Ma quali sono questi diritti
Molti più di quelli che ci si possa aspettare. E la cosa notevole è che ce ne sono alcuni che sono già esigibili, anche senza il rilascio di stati civili o iscrizione a registri particolari. Su questo rinvio alla prossima pubblicazione di un vero e proprio manuale che l’Associazione Radicale certi Diritti insieme all’Associazione Luca Coscioni e sotto la guida magistrale di Bruno De Filippis sta per pubblicare con Stampa Alternativa.
Anche su questa materia, comunque, qualche parola di chiarezza deve essere detta: dimenticate testamenti, successioni, questioni patrimoniali e pensioni di reversibilità, per i quali ovviamente comuni e regioni non possono in alcun modo intervenire coi propri provvedimenti. E cominciamo invece a lavorare su tutte le materie nelle quali si può concretamente intervenire provando l’esistenza del nucleo familiare non unito in matrimonio con un semplice stato di famiglia (o con l’iscrizione al registro se proprio vi piace di più). Assistenza e sanità, casa, diritti del personale dipendente, istruzione e formazione, sono le prime aree di intervento nelle quali con un lavoro magari faticoso ma necessario dobbiamo andare a scovare condizioni di privilegio non giustificato per le coppie matrimoniali ed estendere a tutte le famiglie, anche quelle senza matrimonio. Impossibile elencare la casistica, ma vi posso assicurare che la rilettura degli atti di programmazione di regioni e comuni in queste materie può farci scoprire cose utili davvero, e non solo dichiarazioni di principio. In questo senso è appena iniziato questo lavoro col Comune di Torino, ma sicuramente la norma con più diretto impatto è quella della Regione Emilia Romagna.
Stiamo facendo il gioco degli altri?
Siamo sicuri che questo tipo di strategia (ottenere da regioni ed enti locali diritti e doveri senza un riconoscimento civilistico delle convivenze e dei matrimoni per le persone dello stesso sesso) non sia un autogol? Che, in fondo, questo tipo di strategia non dia ragione a chi, da più parti, ha predicato che “alcuni diritti” possono essere estesi alle coppie conviventi senza riformare il diritto di famiglia?
Il pericolo esiste, e sono certo che da parte di coloro che questa tesi hanno sostenuto ad un certo punto l’argomento sarà usato. Ma io credo nelle riforme graduali, ovvero credo che la società possa modificare il proprio impianto legislativo ed il quadro dei diritti e dei doveri riconosciuti, anche passo passo, senza la palingenesi del “tutto in una volta”. E questo non perché ci si debba accontentare dei piccoli passi, ma solo perché i “piccoli passi” sono la stategia più efficace ORA IN ITALIA per operare vero cambiamento, politico, istituzionale, sociale e culturale. Basta guardare alla tradizione radicale (di cui siamo figli naturali e legittimi) in materia per comprendere che il doppio registro di intervento non è mai una rinuncia, ma una semplice strategia.
Magari tra qualche tempo la situazione cambia, e noi dovremo essere pronti a cambiare con essa. E magari l’altra strategia costruita in questi anni, quella delle cause pilota, porterà maggiori risultati di quelli fino ad ora ottenuti. La litigation strategy rimane per noi di CD il primo pilastro dell’azione per l’uguaglianza sostanziale e non solo formale delle persone lgbt in Italia. Non esiste una priorità, ne temporale ne contenutistica tra i due pilastri, ma una unica di finalità che a me pare del tutto evidente, oltre che necessaria.
Su come si stia costruendo in Italia il primo pilastro, ovvero la strategia delle cause pilota, magari qualche osservazione è altrettanto necessaria. Giusto per alimentare quel confronto sulle strategie che in Italia o manca del tutto o è drogato dalla solita, miope e bulimica fame di visibilità mediatica da cui tutti e tutte, chi più e chi meno, dobbiamo una buona volta liberarci.
Enzo Cucco
Associazione radicale certi diritti
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