Distratti come siamo dal chiacchiericcio malevolo che affligge il movimento come le zecche i cani, forse non stiamo dedicando sufficiente attenzione a due sfide, due piccole prove di come si tenti di trovare “strade nuove” nel blocco immobile della politica sul tema dell’uguaglianza tra persone eterosessuali, omosessuali e transgenere. E nel rapporto tra le organizzazioni lgbt italiane, che al tema precedente è strettamente legato.
Parlo del Pride romano e del Pride torinese.
Sulla sfida romana, legata al Pride che in quella città si svolgerà tra qualche settimana, ci sarebbero molte cose da dire, perché molte cose sono capitate nel movimento della capitale dal 2000 ad oggi. Di certo, visto da lontano, mi sembra un caso di studio interessante quello di una realtà locale che a maggioranza decide di rivoluzionare il processo di costruzione del proprio Pride che a sua volta genera una reazione firmata da un cartello di organizzazioni, molte delle quali non romane, che si esprimono contro il metodo scelto. La sensazione che ho avuto leggendo il documento “NO al Roma Pride 2010” è che si dimentichi una cosa semplice semplice: il Pride non è appannaggio di alcuna organizzazione singola, ma un evento che innanzitutto si rivolge alla comunità delle persone gay, lesbiche e, in quasi tutto il mondo, delle persone transessuali, per rinnovare, ogni anno, il valore della visibilità e la richiesta di pari diritti ed opportunità. Ed è evidente che l’organizzazione di questo evento (che nella maggior parte dei paesi di cultura occidentale è ormai appannaggio esclusivo delle organizzazioni commerciali della comunità lgbt, non dimentichiamolo, che svolgono una funzione di “servizio” per la comunità, lasciando alle organizzazioni la gestione politica degli eventi) deve poter contare su una larghissima base di consenso tra le organizzazioni attive sul territorio.
E’ pleonastico ricordare che il Pride non è un marchio registrato di proprietà esclusiva, e che chi lo organizza lo deve fare operando nell’interesse della comunità intera? Senza interpretare ideologicamente senso ed obiettivi del Pride ma facendo in modo che lo stesso sia il più inclusivo e plurale possibile? Vanno in questa direzione le dichiarazioni di chi ha firmato il NO Roma Pride o forse dietro quegli argomenti c’è solo il rispetto (di per se rispettabile) per la storia del Circolo Mario Mieli e la sua egemonia (democratica, ovviamente) sulla realtà romana fino ad oggi?
Quale altro metodo si può usare in situazioni simili a quella romana se non quello del voto e del confronto tra maggioranza e opposizione (si parva licet) dentro il movimento?
C’è una regola, però, che non deve essere dimenticata quando si creano maggioranze e opposizioni (su una proposta, su un obiettivo, ecc. ecc.): entrambe le parti in gioco hanno gli stessi obblighi (morali) di responsabilità. Per la maggioranza di essere più inclusiva possibile, per la minoranza di guardare all’interesse collettivo e non al proprio interesse di organizzazione. La sfida del Pride romano sta tutta qui, ed è una grande sfida: evitare che la differenza che si palesa non sia una ferita che necessità di vendetta, ma solo il frutto di una dialettica naturale che può e deve essere governata.
La seconda sfida, anche se non appare, ha molto a che fare con quanto accade a Roma, anche se il contesto appare del tutto differente. Come è noto sull’onda di alcune prime dis-graziate (nel senso di prive di grazia) dichiarazioni del Presidente Cota contro la RU486 e, guarda caso, contro il Pride, le organizzazioni che aderiscono al Coordinamento Torino Pride lgbt, insieme ad alcune organizzazioni di donne molto presenti in Città, la CGIL e, quasi contemporaneamente, alcune organizzazioni di immigrati e migranti, hanno deciso di convocare una manifestazione unitaria su un documento molto sintetico ma molto “forte” su argomenti identitari. Non a caso le quattro parole d’ordine sono: autodeterminazione, laicità, antirazzismo e antifascismo.
In sé questa scelta è storica, perché è la prima volta (a mia memoria) che in Italia tre movimenti diversi come quello lgbt, delle donne e antirazzista trovano una occasione comune per manifestare. Ed è necessario ricordare che il Coordinamento ha fatto questa scelta discutendone, dividendosi e poi votando, a maggioranza, sulla proposta. Nessuno di coloro che ha votato contro o ha espresso dubbi sulla scelta ha lavorato contro e spero che, nella malaugurata ipotesi di un risultato non all’altezza delle aspettative, nessuno tiri fuori il famoso “io l’avevo detto…”.
Ma anche a Torino non mancano le difficoltà: innanzitutto la malcelata insofferenza nei confronti di Paola Concia e Aurelio Mancuso, rei di aver lanciato per primi la proposta senza aver prima coinvolto le organizzazioni locali. Il mio stupore è stato grande nel constatare che l’insofferenza era registrabile anche nelle organizzazioni che non fanno parte del movimento lgbt, segno che purtroppo tutti ormai abbiamo sviluppato anticorpi molto vigili sul tema della competizione in materia di visibilità. Personalmente non avrei mai fatto una proposta simile pubblicamente senza sentire prima le organizzazioni del territorio, ma questa è un’altra storia, e siccome non credo che l’abito faccia il monaco tendo a dare maggiore importanza alla sostanza delle cose dette piuttosto che all’etichetta usata per dirle.
Inoltre la scelta di organizzare un Pride così diverso ha prodotto molti distinguo e mal di pancia anche nel movimento delle donne e nei gruppi di immigrati e migranti, segno che la diffidenza manifestata da alcuni esponenti del movimento lgbt (io per primo) è condivisa almeno quanto la voglia di fare la manifestazione.
Col passare delle settimane credo che nel comitato organizzatore si sia creata una prima visione strategica comune sul fatto che tutti coloro che subiscono la negazione dei propri diritti (formale o informale che sia) hanno tutto l’interesse a lavorare insieme. Non è possibile che una società sia inclusiva nei confronti di una sua parte e non lo sia nei confronti di un’altra. O per meglio dire, gli evidenti squilibri che viviamo nel conteggio dei doveri e dei diritti assegnati a ciascun di noi (come singoli e come comunità) sono la naturale motivazione al lavoro comune che ci deve spingere verso forme di cooperazione e unità di iniziative sempre più cogenti. Ed è su questo, ovvero sull’interesse comune, che si costruisce unità di intenti, non sulla valorizzazione delle differenti identità.
La sfida torinese sta tutta qui: saremo in grado di trasformare questo primo momento del 19 come l’inizio di un percorso di maturazione verso obiettivi che accomunino tutte le componenti e non, al contrario, tentare un impossibile unità di identità differenti?
Saremo in grado di evitare la facile scorciatoia di organizzare una generica manifestazione CONTRO COTA, ed imboccare la strada più difficile di una manifestazione assertiva a FAVORE DEI DIRITTI DI TUTTI E DI TUTTE e PER LA DIFESA DI OBIETTIVI CONCRETI E PRECISI?
L’inganno di pensare che si possa stare insieme solo contando sulle nostre identità differenti è molto pericoloso. La scelta di condividere un pezzo di strada perché “ci conviene” è più sano e forse anche più produttivo. Nella tradizione radicale questo concetto viene tradotto in una sorta di piccolo mantra che ci ripetiamo ogni qual volta si affacciano opportunità di alleanze: è necessario creare “l’unità laica delle forze” e non “l’unità delle forze laiche”. La posizione dell’aggettivo, ed il suo stesso significato, possono offrire le necessarie garanzie perché l’impresa avviata sia trasparente, veramente inclusiva e forte.
Enzo Cucco
www.gayindependent.blogspot.com
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