martedì 2 novembre 2010

ULTIME NOVITA': BERLUSCONI E' ETERO!

La novità di oggi è che Berlusconi preferisce le donne. E ci tiene a farlo sapere soprattutto ai probi cittadini che da lunedì prossimo parteciperanno alla Conferenza nazionale vaticana sulla famiglia, organizzata dal soldatino di Cristo Giovanardi ed appaltata alle varie correnti del cattolicesimo italiano, compreso quello di sinistra.

Certo qualcosa doveva inventarsi per recuperare credibilità agli occhi di coloro che fino ad oggi è riuscito a tenere sotto la sua influenza con l’aiuto del bastone (la campagna contro Boffo, di nuovo con l’omosessualità di mezzo … ) e la carota (i soldi alle scuole cattoliche, alle parrocchie, ecc.).

Il Presidente del Consiglio continua la sua strategia: lo ha fatto sul caso Englaro, usato per manganellare il Presidente della Repubblica e compiacere l’elettorato cattolico. Continua con la battuta di oggi sulla preferenza per le donne. E le mille altre cosiddette gaffes che invece non sono altro che talloncini di un puzzle costruito a tavolino sulla base di indagini di mercato e consigli di esperti di marketing politico.

No, non c’entra più (e forse non c’è mai c’entrato…) il Berlusconi diretto, non-politico, “popolare” che parla alla pancia della gente, come la vulgata dei suoi interpreti, di parte e non, ha costruito in questi anni. Questa è grezza strategia comunicativa ferma agli anni in cui bastava mostrare le cosce di una bella ragazza per vendere le sigarette.

Se devo dire la verità la battuta di Berlusconi di oggi non mi stupisce ne mi scandalizza più di tanto: lui è libero di vivere la sua vita sessuale come meglio crede, la smetta solo di impartire lezioni morali agli altri e lasci, da liberale quale lui non è, che ciascuno possa aspirare a costruire quello scampolo di felicità che gli è consentito dai mezzi e dalla fortuna che la vita gli ha concesso.
Mi preoccupa molto di più la reazione dei media e di molti milioni di italiani, che invece di vedere la pericolosità di questa strategia comunicativo-politica, gongolano sulla nuova gazzarra, moraleggiano sui comportamenti personali, e magari rimpiangono (come D’Alema ha recentemente esternato) una chiesa cattolica più interventista sulla scena politica italiana.

Sono anche molto più interessato alle reazioni che ci saranno: se a reagire alla volgarità calcolata della battuta di oggi saranno solo i gruppi gay ed “affini”, se nessuna voce cattolica o cristiana si ribellerà al destino di essere carne da macello elettorale, se nessuno dei gay e le lesbiche i centro destra, magari con una battuta (che spesso è molto più efficace dell’indignazione) non segnalerà la volgarità e la strumentalità di quanto Berlusconi oggi ha affermato

E guarderò con noia, e un po’ di rabbia, i Dolci e i Gabbani da domani diffonderanno le loro lodi su un Berlusconi laico, spiritoso, naturale, antipolitico, grande amico dei gay. Ed i Ferrara che gigioneranno sulla sinistra e sui gay privi di senso dell’umorismo.
Che bello sarebbe se, semplicemente, gli si dicesse “stai zitto e vergognati” proprio dai suoi sostenitori.

Nel frattempo scarico la frustrazione oggi (2 novembre) alle 18 davanti alla Prefettura di Torino e lunedì 8 novembre prossimo con l’Associazione Radicale Certi Diritti a manifestare davanti alla penosa Conferenza nazionale sulla famiglia e partecipare al seminario organizzato sulle famiglie presso la Statale di Milano ( per altre informazioni segui gli eventi sul sito: www.certidiritti.it).

Enzo Cucco

giovedì 15 luglio 2010

STEFANO RODOTA SU MATRIMONI GAY

Matrimoni gay e doveri del Parlamento
Stefano Rodotà
la Repubblica, 15 luglio 2010

In tutto il mondo l’ agenda dei diritti si compone e si scompone. Si discute della libertà di espressione su Internet. I diritti dei migranti sono al centro di un importante intervento di Obama, mentre in Europa producono manifestazioni di xenofobia e razzismo che influenzano le elezioni nazionali. La crisi economica incide sui diritti dei lavoratori, impone condizioni che violano il principio del “decent work”, della dignità del lavoro. Le ultime notizie dall’ Islanda aggiungono un altro paese a quelli che già hanno riconosciuto il matrimonio omosessuale, mentre in Italia la comunità gay sta conoscendo inedite polemiche. A queste reagisce un esponente autorevole di questo mondo, Aurelio Mancuso, affermando che «di queste beghe la comunità non vuol sentire parlare, la comunità vuole diritti», aggiungendo che si tratta di una richiesta rivolta a tutte le forze politiche, senza distinzioni. Una mossa “politicista” o una giusta sollecitazione istituzionale? Il Parlamento italiano è inadempiente, ed è bene che sia richiamato ai suoi doveri. Con una recentissima sentenza, infatti, la Corte costituzionale ha ribadito la rilevanza costituzionale delle unioni omosessuali, poiché siamo di fonte ad una delle “formazioni sociali” di cui parla l’ articolo 2 della Costituzione. Da questa constatazione la Corte trae una conclusione importante: alle persone dello stesso sesso unite da una convivenza stabile «spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». Sono parole impegnative: un “diritto fondamentale” attende il suo pieno riconoscimento.

Non è ammissibile, dunque, la disattenzione del Parlamento, perché in questo modo si privano le persone di diritti costituzionalmente garantiti. Qualcuno, al Senato e alla Camera, porrà con la dovuta durezza questa domandae chiederà che si riapra almeno la discussione sulle unioni di fatto? Ma la Corte va oltre. Pur ribadendo che l’ attuale disciplina costituzionale del matrimonio non permette di ricomprendere al suo interno la disciplina delle unioni omosessuali, fa due affermazioni rilevanti. La prima è di carattere generale. Si sottolinea che le norme attuali, che vincolano il matrimonio alla differenza di sesso, non possono essere superate attraverso una interpretazione dei giudici costituzionali. Questo vuol dire che, preclusa al giudice, la via del mutamento dell’ articolo della Costituzione sul matrimonio, per renderlo compatibile con le unioni omosessuali, potrebbe essere percorsa dal legislatore. Si può obiettare che una revisione costituzionale in una materia così scottante appare improbabile. E qui interviene la seconda affermazione, che mostra come non sia corretto prospettare una incompatibilità assoluta tra il modello del matrimonio tradizionale e quello dell’ unione omosessuale. È sempre la Corte che parla: «Può accadere che, in relazioni a ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale». Una barriera è caduta. Il Parlamento non potrà usare l’ argomento, utilizzato in passato, di un presunto obbligo di non creare “contiguità” tra disciplina del matrimonio e disciplina delle unioni di fatto. Proprio perché i giudici costituzionali sono stati guidati da tanta consapevolezza, ci si poteva aspettare una attenzione maggiore per il modo in cui il tema è affrontato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione europea. Qui si coglie una netta discontinuità.

Nell’ articolo 21 si vieta ogni discriminazione basata sulle tendenze sessuali. E, soprattutto, nell’ articolo 9 si stabilisce che «il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’ esercizio». La distinzione tra “il diritto di sposarsi” e quello “di costituire una famiglia” è stata introdotta proprio per consentire la costituzione legale di unioni distinte da quelle tra persone di sesso diverso, dunque anche quelle tra omosessuali. E il passo avanti rappresentato dalla Carta diventa ancor più evidente proprio se si fa un confronto con quel che dispone l’ articolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell’ uomo del 1950, dov’ è scritto che «uomini e donne hanno diritto di sposarsi e di costituire una famiglia secondo le leggi nazionali che disciplinano l’ esercizio di tale diritto». Confrontando questo articolo con quello della Carta, si colgono differenze sostanziali. Nella Carta scompare il riferimento ad “uomini e donne”. Non si parla di un unico “diritto di sposarsi e di costituire una famiglia”, ma si riconoscono due diritti distinti, quello di sposarsi e quello di costituire una famiglia. La conclusione è evidente. Nel quadro costituzionale europeo, al quale l’ Italia deve riferirsi, esistono ormai due categorie di unioni destinate a regolare i rapporti di vita tra le persone. Due categorie che hanno analoga rilevanza giuridica, e dunque medesima dignità: non è più possibile sostenere che esiste un principio riconosciuto – quello del tradizionale matrimonio tra eterosessuali – ed una eccezione (eventualmente) tollerata – quella delle unioni omosessuali. In un paese che onora la civiltà della discussione e rispetta i diritti delle persone, queste dovrebbero essere le linee guida per il legislatore. Poiché, invece, questi temi sono ormai oggetto della prepotenza ideologica di chi vuole imporrei propri valori, definendoli non negoziabili, può essere utile ricordare che il mondo cattolico non è riducibile alle gerarchie vaticane e a chi se ne fa portavoce. Nel 2008 la rivista dei gesuiti, Aggiornamenti sociali, ha pubblicato una serie di scritti sulle unioni omosessuali, con i quali si può dissentire su alcuni punti, ma che prospettano una conclusione assai impegnativa.

Al politico cattolico si dice che «non spetta al legislatore indagare in che modo la relazione viene vissuta sotto altro profilo che non sia quello impegnativo dell’ assunzione pubblica della cura e della promozione dell’ altro». E si sottolinea che, una volta riconosciuto il valore sociale della convivenza, «risulterebbe contrario al principio di eguaglianza escludere dalle garanzie certi tipi di convivenze, segnatamente quelle tra persone dello stesso sesso». Poiché si tratta di diritti fondamentali della persona, il riconoscimento «è istanza morale prima che garanzia costituzionale». Non si potrebbe dire meglio. Ma si deve aggiungere che nessuno può disinteressarsi di questo tema considerandolo affare di altri. Intervistata dal New York Times, Martha Nussbaum ha detto: «Se mi risposerò, sarò preoccupata del fatto che sto godendo di un privilegio negato alle coppie dello stesso sesso». Anche la più intima tra le decisioni non può farci distogliere lo sguardo dal vivere in società, dalla condizione e dai diritti di ogni altra persona, lontana o vicina che sia.

martedì 13 luglio 2010

RENATO ZERO NON E' GAY !

Solo Totò è in grado di riassumere il mio pensiero:

sabato 19 giugno 2010

Sfide

Distratti come siamo dal chiacchiericcio malevolo che affligge il movimento come le zecche i cani, forse non stiamo dedicando sufficiente attenzione a due sfide, due piccole prove di come si tenti di trovare “strade nuove” nel blocco immobile della politica sul tema dell’uguaglianza tra persone eterosessuali, omosessuali e transgenere. E nel rapporto tra le organizzazioni lgbt italiane, che al tema precedente è strettamente legato.

Parlo del Pride romano e del Pride torinese.

Sulla sfida romana, legata al Pride che in quella città si svolgerà tra qualche settimana, ci sarebbero molte cose da dire, perché molte cose sono capitate nel movimento della capitale dal 2000 ad oggi. Di certo, visto da lontano, mi sembra un caso di studio interessante quello di una realtà locale che a maggioranza decide di rivoluzionare il processo di costruzione del proprio Pride che a sua volta genera una reazione firmata da un cartello di organizzazioni, molte delle quali non romane, che si esprimono contro il metodo scelto. La sensazione che ho avuto leggendo il documento “NO al Roma Pride 2010” è che si dimentichi una cosa semplice semplice: il Pride non è appannaggio di alcuna organizzazione singola, ma un evento che innanzitutto si rivolge alla comunità delle persone gay, lesbiche e, in quasi tutto il mondo, delle persone transessuali, per rinnovare, ogni anno, il valore della visibilità e la richiesta di pari diritti ed opportunità. Ed è evidente che l’organizzazione di questo evento (che nella maggior parte dei paesi di cultura occidentale è ormai appannaggio esclusivo delle organizzazioni commerciali della comunità lgbt, non dimentichiamolo, che svolgono una funzione di “servizio” per la comunità, lasciando alle organizzazioni la gestione politica degli eventi) deve poter contare su una larghissima base di consenso tra le organizzazioni attive sul territorio.
E’ pleonastico ricordare che il Pride non è un marchio registrato di proprietà esclusiva, e che chi lo organizza lo deve fare operando nell’interesse della comunità intera? Senza interpretare ideologicamente senso ed obiettivi del Pride ma facendo in modo che lo stesso sia il più inclusivo e plurale possibile? Vanno in questa direzione le dichiarazioni di chi ha firmato il NO Roma Pride o forse dietro quegli argomenti c’è solo il rispetto (di per se rispettabile) per la storia del Circolo Mario Mieli e la sua egemonia (democratica, ovviamente) sulla realtà romana fino ad oggi?
Quale altro metodo si può usare in situazioni simili a quella romana se non quello del voto e del confronto tra maggioranza e opposizione (si parva licet) dentro il movimento?
C’è una regola, però, che non deve essere dimenticata quando si creano maggioranze e opposizioni (su una proposta, su un obiettivo, ecc. ecc.): entrambe le parti in gioco hanno gli stessi obblighi (morali) di responsabilità. Per la maggioranza di essere più inclusiva possibile, per la minoranza di guardare all’interesse collettivo e non al proprio interesse di organizzazione. La sfida del Pride romano sta tutta qui, ed è una grande sfida: evitare che la differenza che si palesa non sia una ferita che necessità di vendetta, ma solo il frutto di una dialettica naturale che può e deve essere governata.

La seconda sfida, anche se non appare, ha molto a che fare con quanto accade a Roma, anche se il contesto appare del tutto differente. Come è noto sull’onda di alcune prime dis-graziate (nel senso di prive di grazia) dichiarazioni del Presidente Cota contro la RU486 e, guarda caso, contro il Pride, le organizzazioni che aderiscono al Coordinamento Torino Pride lgbt, insieme ad alcune organizzazioni di donne molto presenti in Città, la CGIL e, quasi contemporaneamente, alcune organizzazioni di immigrati e migranti, hanno deciso di convocare una manifestazione unitaria su un documento molto sintetico ma molto “forte” su argomenti identitari. Non a caso le quattro parole d’ordine sono: autodeterminazione, laicità, antirazzismo e antifascismo.

In sé questa scelta è storica, perché è la prima volta (a mia memoria) che in Italia tre movimenti diversi come quello lgbt, delle donne e antirazzista trovano una occasione comune per manifestare. Ed è necessario ricordare che il Coordinamento ha fatto questa scelta discutendone, dividendosi e poi votando, a maggioranza, sulla proposta. Nessuno di coloro che ha votato contro o ha espresso dubbi sulla scelta ha lavorato contro e spero che, nella malaugurata ipotesi di un risultato non all’altezza delle aspettative, nessuno tiri fuori il famoso “io l’avevo detto…”.

Ma anche a Torino non mancano le difficoltà: innanzitutto la malcelata insofferenza nei confronti di Paola Concia e Aurelio Mancuso, rei di aver lanciato per primi la proposta senza aver prima coinvolto le organizzazioni locali. Il mio stupore è stato grande nel constatare che l’insofferenza era registrabile anche nelle organizzazioni che non fanno parte del movimento lgbt, segno che purtroppo tutti ormai abbiamo sviluppato anticorpi molto vigili sul tema della competizione in materia di visibilità. Personalmente non avrei mai fatto una proposta simile pubblicamente senza sentire prima le organizzazioni del territorio, ma questa è un’altra storia, e siccome non credo che l’abito faccia il monaco tendo a dare maggiore importanza alla sostanza delle cose dette piuttosto che all’etichetta usata per dirle.

Inoltre la scelta di organizzare un Pride così diverso ha prodotto molti distinguo e mal di pancia anche nel movimento delle donne e nei gruppi di immigrati e migranti, segno che la diffidenza manifestata da alcuni esponenti del movimento lgbt (io per primo) è condivisa almeno quanto la voglia di fare la manifestazione.

Col passare delle settimane credo che nel comitato organizzatore si sia creata una prima visione strategica comune sul fatto che tutti coloro che subiscono la negazione dei propri diritti (formale o informale che sia) hanno tutto l’interesse a lavorare insieme. Non è possibile che una società sia inclusiva nei confronti di una sua parte e non lo sia nei confronti di un’altra. O per meglio dire, gli evidenti squilibri che viviamo nel conteggio dei doveri e dei diritti assegnati a ciascun di noi (come singoli e come comunità) sono la naturale motivazione al lavoro comune che ci deve spingere verso forme di cooperazione e unità di iniziative sempre più cogenti. Ed è su questo, ovvero sull’interesse comune, che si costruisce unità di intenti, non sulla valorizzazione delle differenti identità.

La sfida torinese sta tutta qui: saremo in grado di trasformare questo primo momento del 19 come l’inizio di un percorso di maturazione verso obiettivi che accomunino tutte le componenti e non, al contrario, tentare un impossibile unità di identità differenti?
Saremo in grado di evitare la facile scorciatoia di organizzare una generica manifestazione CONTRO COTA, ed imboccare la strada più difficile di una manifestazione assertiva a FAVORE DEI DIRITTI DI TUTTI E DI TUTTE e PER LA DIFESA DI OBIETTIVI CONCRETI E PRECISI?

L’inganno di pensare che si possa stare insieme solo contando sulle nostre identità differenti è molto pericoloso. La scelta di condividere un pezzo di strada perché “ci conviene” è più sano e forse anche più produttivo. Nella tradizione radicale questo concetto viene tradotto in una sorta di piccolo mantra che ci ripetiamo ogni qual volta si affacciano opportunità di alleanze: è necessario creare “l’unità laica delle forze” e non “l’unità delle forze laiche”. La posizione dell’aggettivo, ed il suo stesso significato, possono offrire le necessarie garanzie perché l’impresa avviata sia trasparente, veramente inclusiva e forte.

Enzo Cucco
www.gayindependent.blogspot.com

domenica 6 giugno 2010

SEX AND THE CITY FOREVER!

Ci sono molti motivi per vedere, o per non vedere, Sex and the City due. Se fossi in voi non me lo perderei: è il più efficace e veritiero manifesto a favore della cultura occidentale (la nostra) che io abbia mai visto.
Un capolavoro di anti-fondamentalismo.
Molto, molto interessante.
Enzo

venerdì 26 marzo 2010

BUSI VS RATZINGER ?

Aldo Busi è stato cacciato dalla RAI per aver offeso il Papa. Ma l'offesa è stata consumata definendolo omosessuale, represso od omofobo?